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ZELJKO

È sera, rientro in treno da Verona dopo una giornata di fiera. Cinquantasette anni. Sono un po’ stanco.

Salgo nella mia macchina che mi aspettava in un parcheggio lungo una stradina di una zona residenziale del paese di Lerino. L’abitacolo è ancora intiepidito dai raggi del sole ricevuti in questa giornata primaverile. Inserisco nel navigatore il nome dell’ostello dove ho prenotato. Ha un nome strano, Zeljko Luxury Hostel. Ho un po’ di appetito ma preferisco lasciare prima la valigia in camera. Oltre al nome, questo alloggio prevede anche una strana combinazione. Non l’avevo capito al momento della prenotazione, ma solo poco dopo, ossia che la bellissima camera ha due letti divisi da una tenda sottile e c’è la concreta possibilità che l’altro letto sia occupato da un altro ospite. In un primo momento ho pensato di annullare gratuitamente questa prenotazione, ma poi ho esitato qualche istante e mi sono detto: “In fondo perché no, le recensioni sono ottime e si tratta soltanto di due notti, ho girato il mondo e non mi spaventano certo queste cose”. Sono anche un tipo curioso che ama in particolare le sfaccettature più intricate che la vita sa offrire e che odia la monotonia. In questo momento tuttavia la stanchezza mi avrebbe fatto preferire una camera tutta per me, dove tuffarmi sul letto anche con le scarpe addosso, svestirmi e buttare le cose in disordine. Sono quasi arrivato. La zona dell’ostello è circondata da condomini e grandi palazzine anni settanta. Anche il mio alloggio si trova in uno di questi. Suono il campanello. Ho la valigia in una mano e un appendino con un paio di camicie nell’altra. Dopo un po’ esce un ragazzino di circa quattro anni. Sento che chiama sua mamma la quale poco dopo scende, parla in francese e mi spiega che le chiavi si trovano all’interno di una scatolina chiusa con una combinazione appesa alla ringhiera e che dovrei aver ricevuto per email un codice per poterla aprire. Mi sembra di capire che non ci sia una reception. Anche lei è una delle ospiti, molto gentile. Mi accompagna al piano. Mi indica la mia camera identificata con il colore giallo. Ci congediamo. Ora solo pochi passi mi dividono dal capire se sarò solo oppure se dovrò dividere la stanza con qualcuno. Nei giorni scorsi avevo ipotizzato diversi scenari possibili, avevo riso e scherzato con gli amici. Avrei potuto trovare un camionista bulgaro, un profugo afghano, un giovane turista, oppure una gnocca fotonica. A quest’ ultima possibilità davo poco credito, un po’ per scaramanzia e un po’ perché era meno probabile che una donna scegliesse una soluzione di questo tipo. La porta non è chiusa a chiave. Entrando vedo i due letti uniti e divisi dalla tenda. Quello a sinistra verso la finestra dev’essere il mio perché ha le lenzuola e il copriletto piegati mentre l’altro è un po’ in disordine. Sono solo e il mio sguardo cade subito sul guardaroba pieno di abiti femminili alla mia destra. Una donna dunque… Mi fermo ad osservare, in primo piano una camicia color rosa carne, dietro una arancione, poi un vestito lungo più scuro. La taglia sembra una 44. Penso che possano appartenere ad una donna borghese con un certo gusto. Ma perché un guardaroba così fornito? Che significato può avere? Appoggio le mie cose e preparo il mio letto, esco dalla camera per entrare nel bagno e lavarmi le mani, rientro, dò un’ultima occhiata al tutto e vado alla ricerca di una pizzeria. Google Maps me ne fa vedere una poco lontana ma quando la raggiungo vedo che è solo per asporto. Ne cerco un’altra sulla base dei voti attribuiti. Ne trovo una piuttosto centrale che effettivamente mi ispira. Mi accomodo, e chiedo alla cameriera dell’acqua frizzante. Ho sete e la giornata al Vinitaly con i molteplici assaggi mi ha scaldato la gola. Tramite il QR code, che odio, dò un’occhiata al menù e ordino una pizza con ingredienti selezionati, piuttosto mediterranea come gusti. Mi faccio portare un calice di Soave. Ora, nell’attesa,  posso pensare alla serata che mi aspetta al rientro in camera. Mille pensieri si affollano nella mia mente. Inizio il mio viaggio immaginario. C’è di tutto, ogni possibile situazione si prefigura in modo distinto, anche voi lettori potreste fare una pausa e mettervi nei miei panni. Premetto che io sono un tipo riflessivo, un altro potrebbe benissimo sorvolare su tutto e fregarsene, cogliere quello che viene come viene ma io, a volte dico purtroppo, non sono così. A me piace proprio questo. Assaporare tutto, l’attesa, lasciare viaggiare la fantasia e volare con essa. Sento che non sarà una notte qualunque. Comunque arriva la pizza e mangio. Morbida dentro e croccante sui lati. È già tagliata a spicchi. La pizzeria si chiama “Fattore F”. Pare non sia un nome casuale. Vado a vedere anche cosa significhi Zeljko e vedo che in croato significa “Desiderio”. Non prendo il caffè, avrò già dei buoni motivi per non prendere sonno facilmente. Salgo in macchina e mi avvio all’ostello. Saranno circa le nove di sera. Entro in appartamento. Si passa attraverso la cucina e c’è un tipo seduto che parla italiano con un accento dell’est. Un uomo sulla quarantina, capelli lunghi, bel tipo. Mi saluta e mi chiede come va. Prima di entrare in camera busso ma nessuno risponde. Entro. Sono solo come un paio d’ore prima. Approfitto per spogliarmi e prepararmi per una doccia calda. Rientro in camera e mi distendo sotto le lenzuola. Scrivo appunti sulla mia agenda della fiera e cerco di definire alcune cose di lavoro. Poi cazzeggio un po’ sul cellulare. Sono quasi le ventitre e sono ancora da solo. Sto per chiudere la mia luce quando sento bussare. Intravvedo nella penombra una giovane donna entrare. Mi saluta con un “Ciao” senza vedermi, e procede verso il suo letto. La voce è giovane e anche la veloce impressione che ho avuto me lo confermava. La tenda tra i due letti non mi permette di vederla, però sento che si sta spogliando, la cintura che si slaccia, le scarpe che si sfilano e vedo la sagoma del suo corpo proiettata dalla luce della sua lampada sul muro. Le dico: ” Piacere, io sono Gigi”. Lei con naturalezza mi risponde: “Piacere, io Sara”. Questa sarà quasi tutta la conversazione di queste ore. Lei poi esce e va in bagno. La mia mente sembra una piazza tumultuosa, in movimento, dove ogni persona è un pensiero, un’idea,  un dubbio, una fantasia. Sono in preda all’eccitazione piu smisurata. Quando rientra e si distende ci scambiamo una buonanotte e chiudiamo la luce nello stesso momento. Sento il suo respiro, sento i suoi movimenti, si rigira un po’. Sento anche un rumore della sua pancia che lei cerca di coprire con un sospiro più accentuato. Io rimango quasi immobile, silenzioso. Sono imbarazzato. Lei è di là della tenda che si può aprire nel mezzo. Un’ora fa, quando lei non c’era ancora, avevo provato ad aprirla e guardare il letto vuoto, per capire come sarebbe stato. È tutto così strano. Ho dormito ancora in ostello con sconosciuti, maschi o femmine, ma eravamo sempre più di due, letti a castello. Si trattava di una situazione più simile ad un campeggio, accampamento. Ma qui è diverso. Qui è una sorta di camera di un appartamento, quasi matrimoniale, se non ci fosse la tenda saremmo fianco a fianco. Certo meglio lei che il camionista bulgaro. Mi viene quasi da ridere. La vita è strana penso. Sono contento di vivere quest’esperienza. Se lo raccontassi alla mia pia madre lei mi direbbe sicuramente: “Potevi recitare il Rosario insieme a lei”. Beh sono sincero. Non è la prima cosa che mi veniva in mente in quel momento. La stanchezza mi assale e prendo sonno. Mi addormento. Ad un certo punto apro gli occhi, forse svegliato dal suo muoversi. Guardo l’ora. Sono circa le due di notte. Lei è sveglia, si sente. Siamo soli, svegli a notte fonda. Respiro più forte quasi a farle intendere che anch’io sono sveglio, inseguendo chissà quale illusione o desiderio. Magari ho semplicemente russato e lei si è destata. Chissà come mai si trova qui…ora parto con le congetture. Un guardaroba cosi equipaggiato, non può essere una turista, forse è venuta per la fiera anche lei. Avrei voglia di parlarle, ma mi trattengo, magari lei sta cercando di riprendere sonno. Penso al suo respiro caldo. Chissà a cosa sta pensando lei. Anche per lei io sono uno sconosciuto. Due sconosciuti svegli alle due di notte in due letti adiacenti. Chissà quanti dei suoi amici vorrebbero essere al posto mio e invece lei si trova qui sola con me,  uno di cui non ha la più pallida idea di chi sia. Se non ci fosse la tenda? Allungherei la mano cercando un timido contatto per capire le sue intenzioni. Ma quali sono le mie? No, è tutto perfetto così. La tenda. Il mistero. Eppure l’idea di due corpi sconosciuti vicini è altrettanto intrigante. Respiro profondamente. Mi sta eccitando quest’ idea ma vado oltre. Il buio oltre la tenda. Cosa sta succedendo in questa notte? Cerco di avere il dominio di me. Resisto e torno a pensieri di lavoro. La situazione esige prima di tutto il rispetto, altrimenti non è più un ostello ma un appuntamento al buio. Del resto lei e io siamo qui per dormire e basta. In effetti mi riaddormento. Verso le sei e mezza mi sveglio. Le fessure della persiana lasciano entrare poca luce. Mi alzo in silenzio e vado in bagno, poi ritorno a letto e guardo il telefono. Sto lì un po’. Dopo poco anche lei si alza, va in bagno, rientra un attimo. Ora è più chiaro. Esce di nuovo in pigiama e va in cucina a fare colazione. Io ne approfitto per alzarmi e vestirmi. La incrocio in cucina mentre parla con la donna francese. Le saluto ed esco dall’appartamento. Finalmente l’ho vista. Una ragazza giovane, sui trent’anni, molto carina, acqua e sapone. Wow, penso. Per tutta la giornata in fiera, durante le degustazioni i pensieri ritornavano spesso su questa strana situazione. Sicuramente lei non se ne sarebbe andata quel giorno, l’avrei in qualche modo rivista la sera. Quest’idea mi donava una sensazione di calore, non era come ritornare in una stanza d’albergo, era come ritornare in un letto condiviso in un’atmosfera intima. In fiera ho raccontato questa cosa ad un amico e lui aveva un approccio completamente diverso e rideva. Era più giovane di me. Sicuramente lui ci avrebbe provato, su questo non ho dubbi. La timidezza non fa parte del suo corredo. Intendiamoci, neppure io sono eccessivamente timido ma prevale in me una sorta di rispetto, qualità che può avermi lasciato parecchi rimpianti forse. Chi lo sa. Del resto non è che un uomo debba essere forzatamente spregiudicato. Con questo amico che è anche un ristoratore mio cliente, abbiamo trascorso un paio d’ore. L’ho portato ad assaggiare vini di varie regioni. C’era anche la sua giovane chef con noi. In un paio di situazioni dove si riusciva ad instaurare un clima molto informale con i produttori, favorito dagli assaggi, lui saltava fuori all’improvviso sputtanandomi con questa storia in modo scherzoso. Ho divagato nel racconto ma le ore passano e fra un po’ si entra di nuovo in campo. Sono sceso dal treno e ho preso la macchina. Sono circa le 18.30 ma stasera andrò a mangiare direttamente qualcosa lungo il tragitto. Cerco tramite Google Maps, avrei voglia di rimanere leggero anche se ho fame ma non voglio appesantirmi che poi magari di notte una digestione difficoltosa potrebbe mettermi in difficoltà. Scelgo, senza prenotare, un ristorante di pesce con buone recensioni non troppo costoso. Lungo la strada dopo qualche chilometro vedo alla mia destra un’insegna “Sushi”. Mi fermo perché penso che non sarebbe una brutta soluzione. Entro. Mi viene incontro una signora cinese sorridente. Chissà perché i cinesi sorridono sempre. Le dico che vorrei mangiare qualcosa. “Toast, signole, facciamo solo toast, vuole un toast?” mi risponde. “No, grazie, pensavo ci fosse il Sushi.” Vabbeh…esco. Dovrebbero cambiare l’insegna almeno. Riparto. Dopo un altro paio di chilometri oltrepasso un ambiente che mi sembrava carino. Mi fermo, torno indietro e parcheggio. Controllo le recensioni, mi sembra Ok. Effettivamente l’ambiente è carino gestito da gente meridionale. C’è un forno da pizza ma preparano anche dei bei piatti di insalata, mozzarella di bufala, burrata, affettati e alici. Dopo mezz’ora sono pronto per andare nel mio ostello. Attraverso la cucina dove incontro quello che ho capito essere il gestore croato. Mi saluta gentilmente. Busso alla porta ed entro nella mia camera. La mia compagna di stanza non c’è. Sul suo letto un reggiseno e una maglietta. Ne approfitto per farmi la doccia e mettermi a letto. Non c’è una scrivania per lavorare. Sono circa le 20.30 e sento bussare. Entra lei. Stavolta mi saluta con un “Buonasera”. Io le rispondo “Ciao”. Probabilmente avrà voluto sottolineare la differenza di età. Prende due cose ed esce. Dopo un’ora rientra. Si toglie i vestiti e va in doccia. In quel momento penso che non può finire tutto così. Questa storia mi incuriosisce troppo. Devo trovare il modo di sapere di più di lei. L’indomani andrò via e non la vedrò più. Non che l’abbia vista molto finora in effetti, ma se non lo faccio non me lo perdonerei. Penso ad un pretesto qualsiasi. Quando rientra si dirige verso il suo letto. Sento qualche rumore, tipo che apre il cassetto, poi forse apre uno Stick di crema. Mi faccio coraggio e le chiedo: “Sara, posso chiederti una cosa”? “Sì, dimmi pure” mi risponde con molta naturalezza. “Mi puoi dire come funziona la procedura del checkout? Dove bisogna lasciare le chiavi?” Anche lei non lo sa esattamente però mi suggerisce alcune possibilità. Non è facile conversare con una persona nascosta da una tenda anche se è al tuo fianco. Mi era successo solo in confessionale o con le misteriose grate delle suore di clausura. Però la sua spigliatezza mi ha tranquillizzato e le faccio altre domande. “Da dove vieni? Come mai ti trovi a Vicenza?” Le stesse cose mi chiede lei. Poi le rivolgo la domanda che più mi incuriosiva. “Ma non ti imbarazza la possibilità di dover dividere la camera con qualcuno?” Lei esita un po’ e poi mi dice: “Si, un po’ sì (pausa) ma in generale mi fido delle persone, (altra pausa) ho una mentalità aperta” Percepisco che si tratta di una risposta meditata. Da quel momento continuiamo a dialogare, dell’amicizia, dei diversi caratteri, di passioni in comune. Come dall’impressione che avevo avuto è una ragazza acqua e sapone. A differenza della notte precedente ora vivo delle sensazioni diverse, più pure. Sono felice di dormire al fianco di una brava ragazza, una giovane donna. Credo che potremmo essere stati dei buoni amici. Però rimane la stranezza della situazione, un’esperienza unica, indescrivibile e piena di suspence. Ci scambiamo la buonanotte. La mattina seguente, ci alziamo a turno. Lei va in cucina a fare colazione. Quando rientra in camera io sono pronto per uscire. Mi chiede il mio biglietto da visita e mi promette di venirmi a trovare nel mio negozio. Dopo qualche giorno mi viene in mente una domanda che non le ho fatto, ossia se nei giorni precedenti lei avesse  condiviso la camera con qualcuno e come era stata vissuta. Sarebbero potute succedere tante cose, verificarsi tante situazioni ma alla fine ha prevalso quella più logica e naturale. Non so se ripeterei quest’esperienza, anche se sono felice di come sia andata. Da un certo punto di vista credo di essere stato fortunato perché la vita mi ha regalato una situazione inaspettata e ricca di fascino misterioso, che poi è il sale della vita.

L’ultima vetta di Chris Terril

Recensione di Luigi Tabarini

Questo film racconta le tragiche vicende alpinistiche di Tom Ballard che, come sua madre, Alison Hargreaves non è più tornato dall’Himalaya. A raccontare la storia sono la sorella e il padre. Una famiglia con un destino segnato perché quando l’ambizione alpinistica raggiunge livelli sempre più audaci e temerari, la possibilità di lasciarci le penne deve fare inesorabilmente i conti con il calcolo delle probabilità. Il film-documentario gioca con le emozioni e il montaggio di video originali dei vari personaggi alternato al pellegrinaggio finale della sorella ai piedi del Nanga Parbat. La madre Alison doveva fare i conti con questa sua passione innata per la montagna e neppure la conquista dell’Everest senza ossigeno nell’agosto del 1995 le era bastata per dirsi: “Ok, ora me ne ritorno a casa dai miei bambini”. Solo un mese dopo ha voluto tentare la stessa impresa sul K2 riuscendovi, ma perdendo la vita durante la discesa. Il figlio Tom crescerà con la stessa passione maniacale, ottenendo presto successi attraverso imprese di primo piano. Il padre lo accompagna e lo guida assieme alla sorella. Nel 2019 si lascia convincere dall’alpinista italiano Daniele Nardi a tentare un’impresa azzardata tentando l’ascesa invernale sul Nanga Parbat attraverso una via inviolata e pericolosa, lo sperone Mummery.

Ora, nel film, entrano in scena le testimonianze delle fidanzate di questi due compagni di avventura che descrivono gli aspetti psicologici dei due protagonisti, cruciali per comprendere un po’ il pericoloso tracciato ed epilogo che si andava delineando. Dietro all’ambizione di Daniele Nardi, pare nascondersi un’esigenza di dimostrare agli altri più che a se stesso il proprio valore facendogli perdere di vista la prudenza e il necessario discernimento quando si affrontano le montagne. In tutto questo è consapevole di trascinare in questa folle impresa anche un talento puro, più giovane di lui, il povero Tom, che, come afferma la sua amata Stefania non è in grado di sottrarsi, seppur apparentemente consapevole, a questo invito. “Tom non è in grado di giudicare gli altri” dirà lei. In realtà, guardando gli occhi di Tom durante quest’avventura mi pare di intravvedere un disagio, un non aver la forza di dire di no, come se la cosa più difficile fosse deludere Nardi piuttosto che andare incontro all’agguato della montagna. In tutto questo c’è qualcosa che lo accomuna a sua madre e probabilmente ad altri alpinisti: la scelta delle priorità. In questo io mi sento vicino al sentimento della fidanzata Stefania più che a quello del padre di Tom pur senza voler emettere un giudizio. Dal film colgo dal padre un’arrendevolezza ineluttabile al destino, mentre in lei colgo un tentativo di lotta, di opporsi ad una sfida senza senso. La sorella di Tom pare assorbita da tutto questo, da queste figure famigliari che l’hanno affascinata e allo stesso tempo incatenata privandola, degli affetti più importanti.

Appendice

Quando sono arrivato a Panamà e ho preso un taxi guardavo meravigliato, con stupore e ammirazione lo skyline, i moderni grattacieli e i palazzi delle banche. Poi ho saputo che i poveri che ci sono in città li chiamano le torri della cocaina e le banche sono chiamate “lavanderie a gettone” per via del riciclaggio di denaro sporco. Ho fatto un’analogia con il mio viaggio. La mia tentazione è di considerarlo una cosa da fighi, di cui vantarmi. In realtà ci sono centinaia di migliaia di persone, ragazzi, donne, bambini che viaggiano per disperazione o sopravvivenza, in condizioni spesso precarie, con incognite e difficoltà di ogni tipo. Io ora posso tornarmene a casa, al calduccio (pare che dalle mie parti faccia caldo davvero) e godere, raccontare delle bellezze che ho visto perché sono nato dalla parte giusta del mondo, ma non posso non pensare ai fratelli più sfortunati. Ecco, credo che viaggiare serva anche a farci aprire gli occhi e riflettere sulle contraddizioni della nostra umanità. Ora sono a Zurigo in attesa di volare a Venezia. Grazie a chi mi ha seguito in quest’avventura e mi ha tenuto compagnia con vari messaggi.

Trentaseiesimo giorno – 7 luglio

Sono quasi ai titoli di coda. Ieri sera il mio programma per festeggiare l’epilogo di questo viaggio era piuttosto alcolico. Mi avvio in metrò verso la zona calda di Palermo dove avevo già trascorso altre serate. Quando scendo dal treno devo camminare comunque un chilometro a piedi, pioviggina ma alzo il cappuccio e proseguo. Ad un certo punto, lungo un marciapiede che costeggia dei palazzi, noto una luce provenire da una rientranza e alcuni giovani che si infilano dentro. Istintivamente lì seguo perché la pioggia diveniva più insistente.  Non si trattava di un locale. Era una Cappella e stava per iniziare una funzione religiosa. Ho pensato subito che effettivamente prima dei festeggiamenti ci sono i ringraziamenti e provvidenzialmente il mio amico Gesù mi ha invitato a modo suo qui dentro. Anche qui le voci soavi dei canti seguono melodie romantiche che risvegliano desideri di fratellanza e di pace. Esco un po’ redento e cerco l’Irish pub che avevo oltrepassato due sere fa. Da fuori sembra chiuso, ma la porta si apre. Dentro pochi avventori. Mi bevo due pinte di Guinness con il sottofondo di folk irlandese. Ordino un piatto di papas fritas per riempire un po’ lo stomaco. Poi esco e mi dirigo verso una specie di garage-discoteca dove avevo sentito che stasera si ballava. All’ingresso non fanno entrare tutti. Quando arriva il mio turno, il tipo mi chiede: “Estas con las chicas?”, erano appena entrate delle ragazze e lui forse mi ha preso per il loro autista. “Claro que sì” rispondo prontamente.  Entro e l’aspetto è quello dei più squallidi ambienti anni ottanta.  Alcuni divanetti e poltrone neri, sparsi qua e là, due banchi con gli alcolici, soffitto basso con le luci strobo e due sfere a specchi che girano. Le palle dopo un po’ girano anche a me, la pista è vuota, forse è troppo presto. C’è il gruppetto con gli sfigatini come da noi e il gruppetto di ragazze con la portatrice di figa che se la tira. Mi prendo un fernet con ghiaccio, lo bevo ed esco. Mi avvio verso lo “Strummer bar” dove l’altra sera sì era esibito un bel gruppo. Mi siedo al bancone e bevo un altro paio di fernet con ghiaccio. Qui in Argentina è l’aperitivo più popolare. Inizia uno spettacolo di cabaret o burlesque e poi prende il palco un gruppo blues che riscalda subito l’atmosfera. Ora posso dirmi completamente soddisfatto. Stamattina ho finito di sistemare lo zaino, sono uscito al supermercato a cercare le bustine di mate e non ho mancato all’appuntamento con il caffè e la medialuna. Ho salutato il buon Guillermo e il suo cane Moro. Il padrone del mio appartamento è un signore molto gentile e disponibile. Mi ha dato tanti suggerimenti per muovermi qui. Sicuramente se mi capiterà di ritornare da queste parti questo alloggio sarà la mia prima opzione. Ora qui in aeroporto mi sento un po’ triste, mi ero un abituato a questa vita randagia, a stare da solo. Sapevo che si trattava di una parentesi, che la mia vita è a casa mia e, a dire il vero, non vedo l’ora di vedere i volti famigliari. So anche che fra una settimana quest’esperienza mi sembrerà lontana, farà già parte del passato. Non sono migliorato ne peggiorato credo, arricchito sì. Quando chiuderò gli occhi scorreranno molte volte davanti a me le immagini di questo viaggio, ne respirerò i profumi più belli. Stando da solo mi sono abituato a rimanere a lungo senza parlare, credo che farò fatica a conversare, per un po’, soprattutto di cose banali. Ho staccato un po’ la spina dai miei meccanismi abituali, forse le camminate in montagna saranno tra le cose che più apprezzerò di più nelle prossime settimane. Stasera dormirò in una posada vicino all’aeroporto di San Paolo, uno scalo tecnico per trovare una combinazione di volo soddisfacente. Viaggiare come ho fatto io è bello ma anche complicato. Spostarsi da un paese all’altro richiede il disbrigo di moduli di immigrazione. Prima di entrare in un paese bisogna essere in grado di esibire anche un biglietto di uscita per cui sei costretto a decidere prima, non puoi improvvisare gli spostamenti. Ogni paese ha le sue regole e restrizioni, aumentate anche con il Covid. I controlli in dogana a volte sono estenuanti. In Argentina è obbligatorio esibire un’assicurazione sanitaria. Ho trovato sempre persone disponibili, educate e gentili. Non ho mai temuto situazioni di pericolo, ho evitato a priori circostanze potenzialmente critiche. Per una donna viaggiare da sola in certi paesi comporta qualche rischio in più, e questo è veramente brutto e avvilente. I pericoli ci sono, nelle zone isolate o nelle ore notturne. Ci sono anche per gli uomini, ma in misura minore. Il luogo preferito tra quelli visti? Non lo so. Ho mescolato tutto insieme e il piatto è buono così, come un pasticcio. Oltretutto le mie possono essere solo delle impressioni superficiali vista la brevità delle mie soste. Sicuramente, per me che amo la natura, gli spazi infiniti americani mi hanno lasciato senza fiato, in particolare il giorno in cui ho attraversato Death Valley. Le persone più calorose forse le ho incontrate in Colombia. La città più strana? Las Vegas. La cucina migliore? In Messico. Le ragazze più belle? Panamà. La città in cui vivrei? Buenos Aires. Costa Rica? La sceglierei per gli spazzolini da denti.

Trentaquattresimo e trentacinquesimo giorno

La salute è ritornata alla grande e l’aria frizzantina della città mi mette di buona lena. Al mattino, dopo il rituale caffè doble e la medialuna mi avvio verso il Teatro Colon. Questo teatro è uno dei primi cinque al mondo per la qualità acustica e, per molti anni agli inizi del Novecento è stato il più grande dell’America. La guida è molto preparata. Anche in questo gruppo di turisti sono l’unico italiano e anche l’unico europeo per la verità. Se la cosa inizialmente poteva suscitare in me qualche senso di inferiorità, sin dalle prime battute inizia a venir fuori il mio orgoglio nazionale. Il primo architetto era italiano, solo che è morto prima di vedere realizzato il suo progetto, il secondo pure era italiano, ma dopo l’inizio dei lavori fu assassinato dal proprio maggiordomo portoghese che aveva una tresca con sua moglie. Il terzo architetto era belga di scuola francese. I materiali utilizzati sono quasi tutti italiani, i marmi di Carrara, Siena e Verona. Le tende e le tappezzerie originali erano italiane, così come le decorazioni, i pavimenti a mosaico di scuola veneziana anche se la pietra in questo caso era inglese. Lo scultore che ha scolpito i busti dei più grandi autori d’opera, da Verdi a Rossini era, manco a dirlo, italiano. Manca il busto di Puccini perché quando il teatro venne inaugurato nel 1908 il compositore era ancora in vita. L’opera inaugurale è stata l’Aida. Qui hanno cantato Maria Callas, Caruso, Pavarotti. Ha diretto Toscanini. Quindi potete immaginare il mio orgoglio di essere italiano davanti a brasiliani, argentini, boliviani, statutinensi e canadesi. Chissà se pensavano a quali super poteri potessi avere io, ovviamente cercavo di dissimulare e darmi un tono. Dopo questo bagno di autostima ho pensato di replicare andando a visitare Palacio Barolo in Avenida de Mayo. Anche questo è opera di un architetto italiano e costruito su commissione di un imprenditore tessile nostro connazionale. È stato per dodici anni, l’edificio più alto del Sudamerica, dal 1923 al 1935. Dal 1997 è monumento nazionale ed ora ospita uffici. La particolarità è che questa costruzione riporta continuamente alla Divina Commedia data la passione dell’architetto per Dante Alighieri. La struttura è divisa in tre parti, inferno, purgatorio e paradiso e culmina con un faro a ricordare l’empireo. L’altezza è di cento metri come il numero dei canti e i piani sono ventidue corrispondenti alla metrica dei versi. La cupola si ispira ad un tempio indù e simboleggia l’amore tantrico tra Dante e Beatrice. All’interno numerosi dettagli allegorici con riferimenti danteschi che non sto ad elencare. Ad ogni modo anche qui ero l’unico italiano del gruppo di visitatori. Il panorama dall’alto si apre a 360 gradi su Buenos Aires. Il faro che viene illuminato ogni sera è visibile anche da Montevideo in Uruguay dove l’architetto ha realizzato un edificio gemello a questo chiamato Palazzo Salvo. Alla sera sono andato in un pub a vedermi la partita di Copa Libertadores tra il Boca Juniors e i brasiliani del Corinthias. L’avvenimento era molto sentito. Stamattina mi sono alzato con molta calma. Mi sono fatto la barba e ho cominciato a riporre le cose nello zaino. Fuori c’era una nebbiolina fredda. Al posto del caffè ho provato il mate, un tradizionale infuso ricavato dalle foglie della pianta ilex paraguayensis. Pare abbia proprietà toniche e stimolanti grazie alla caffeina che contiene. Stavolta ci ho abbinato due medialunas. I caffè qui sono molto accoglienti, con tanti tavolini di legno scuro, le sale sono molto alte. Tante persone trascorrono le mattinate qui, leggendo il giornale, conversando, flirtando, studiando. In sottofondo c’è sempre una malinconica musica di tango. Come si fa a non essere o diventare romantici qui? Io lo sono già un po’ di natura e qui mi lascio trasportare dalla contemplazione dei volti e delle espressioni, poi mi perdo nei miei pensieri, osservo le scene ordinarie, i movimenti dei camerieri. Passata circa un’oretta da buon pensionato passeggio in un parco botanico giapponese, e subito dopo in un parco naturalistico dove vivono alcune speci animali tipiche del Sudamerica. Non riesco a fotografare il condor delle Ande, uno stupendo esemplare con tre metri di apertura alare. Poi, dopo una lunga camminata vado in una parrilla a mangiare un pezzo di asado, la carne tipica originaria dei gauchos delle Pampa. Un taglio di manzo, muscolo addominale nel mio caso, cotto alla brace su una griglia metallica. Ora mi sento proprio bene e stasera dovrò trovare un modo di festeggiare.

Trentaduesimo e trentatreesimo giorno

Buenos Aires mi concilia il relax, un relax attivo per la verità. Non ho il contapassi ma sicuramente percorro parecchi chilometri al giorno. È una città che mi invita a camminare, lo trovo quasi rilassante anche perché in ogni momento, se sono stanco, posso entrare a gustarmi un caffè in uno dei tanti locali alti come i caffè viennesi. Ora ho anche procurato la tessera ricaricabile per utilizzare la comoda metrò ma a questa soluzione ricorro solo per i lunghi spostamenti iniziali. La temperatura invernale è mitigata dai raggi del sole. Come detto, il mio appartamento si trova nel centro di Palermo. Ieri e oggi ho visitato la zona più a sud fino a Boca dove c’è lo stadio del Boca Junior (ex squadra di Maradona), probabilmente la squadra di calcio più amata in Argentina, nota per la passione dei tifosi soprattutto dentro la “Bombonera”. Un po’ più vicino ho visitato Plaza de Mayo con la nota Casa Rosada sede del governo, la Catedral, all’interno della quale c’è anche il mausoleo del generale San Martin eroe dell’indipendenza argentina e anche dell’indipendenza di Cile e Perù nella guerra ispano-americana. Sempre vicino a questa piazza c’è anche la Chiesa più antica della città dedicata a Sant’Ignazio di Loyola e il convento di San Francesco, anch’esso il più antico della città dove per 50 pesos (35 centesimi) un mite frate ti fa da guida raccontandoti la storia del cristianesimo in Sudamerica. Ho camminato poi fino a Recoleta dove è d’obbligo una visita al cimitero. Con qualche euro puoi addentrarti tra le tombe e ammirare l’architettura funeraria dell’Ottocento. Qui sono sepolti personaggi famosi come Evita Peron. Un po’ come visitare Père Lachaise a Parigi. Fuori nel parco, in questa soleggiata e frizzantina domenica c’è anche un bellissimo mercatino artigianale che invoglia a comprare souvenirs. Visito anche Casa Tomada un museo nazionale di arte decorativa. Indubbiamente ci sarebbero tante cose da vedere e fare in questa città ma per mia natura preferisco frequentare i luoghi conviviali per cui finisco quasi sempre nel perdermi in qualche locale e osservare le persone che li frequentano nel tentativo di delinearne dei tratti che possano darmi ispirazioni di qualche tipo. In questo periodo qui c’è una crisi economica e politica. L’inflazione annuale è intorno al 60%. Proprio questo sabato si è dimesso il ministro dell’economia e oggi che è lunedì sembra si sia candidata una nuova ministra. Alla radio dicono che è come aver chiamato un piromane a spegnere l’incendio anziché un pompiere. Io ora non seguo molto la politica italiana, figurarsi quella argentina però ho l’impressione che questo popolo non sia molto combattivo e incline alla protesta, o peggio alle rivoluzioni. È un popolo troppo tollerante con se stesso e con gli altri. Anche qui c’è una tradizione di corruzione al potere però le cose non sembrano mutare nei decenni di storia di questo paese. La tolleranza è una virtù ma quando la si lascia scorrere in modo incontrollato può provocare la rottura degli argini con conseguente perdita del controllo. Queste pagine sono noiose rispetto ai miei standard, lo ammetto. Se qualcuno dei lettori dovesse quantunque essere arrivato fin qui voglio dirgli che la sera uno dei più piacevoli diversivi è scegliere un locale per andare ad ascoltare musica dal vivo. Buenos Aires vanta una passione underground per il punk e la musica rock. Ci sono parecchi locali fucine di gruppi emergenti, non esistono solo milonghe e tango. Stasera ho mangiato in un locale frequentato da studenti universitari. Davanti a me ad un tavolo alcuni ragazzi, a turno, leggeva un passo da un libro mentre gli altri scrivevano nel quaderno degli appunti. Io che ero fuori età me ne stavo tranquillo al mio tavolo a bermi il mio bicchiere di rosso e a mangiarmi formaggio fuso. Qui in Argentina finalmente ho ritrovato la cultura del vino chd avevo lasciato a Napa Valley. Il vino più popolare è il Malbec che costituisce circa il 40% della produzione di vino rosso. Un vitigno che si adatta bene ai terreni di queste latitudini da cui se ne ricava un vino con un colore intenso, fruttato con dei tannini morbidi. Se non si è capito, qui me la sto passando piuttosto bene e ho ancora un paio di giorni davanti.

Trentunesimo giorno – 2 luglio

La prima sensazione camminando per le strade di Buenos Aires è di non essere in Sudamerica ma in una città europea. Percorro a piedi i viali di Palermo tra palazzi e i caffè che mi ricordano nelle loro atmosfere quelli di Parigi. Il sole è basso come nelle nostre città del nord in inverno e i raggi ti costringono a schiudere continuamente gli occhi. Faccio due passi in attesa che Guillermo mi liberi la camera dell’appartamento che ho prenotato. Dopo essermi sistemato esco di nuovo finché mi accomodo in un tavolo all’interno di un locale per un pranzo. Le donne argentine, parlando in generale, hanno un fisico slanciato, volti affascinanti e un modo di parlare sensuale. Gli uomini, quando sono giovani si dividono in quelli stile gauchos delle Pampas, con la barba trasandata, occhi scuri e lo sguardo trasognato e quelli più intellettuali, universitari o eterni studenti Erasmus. Nella seconda fase di età la differenza è più impercettibile. Il tipico uomo argentino ha uno sguardo malinconico, retrò, un po’ nostalgico, con gli occhi sempre scuri le cui estremità calano verso il basso, il naso pronunciato, le labbra superiori leggermente sporgenti come sul punto di emettere dei sospiri. Le bocche sono larghe e le mascelle abbondanti. È un popolo romantico, che ha bisogno di vivere con delle pause, come nel tango. La popolazione della città risente della forte immigrazione italiana di inizio novecento. L’accento del castigliano che si parla qui è diverso dagli altri paesi del Sudamerica. In questi ultimi anni c’è una notevole immigrazione proveniente dal Venezuela e altri paesi poveri. Dopo pranzo mi riposo un poco. I miei meccanismi del sonno sono completamente inceppati tra viaggi notturni in autobus o in aereo e fusi orari. Alla sera ho appuntamento con la mia pseudo cugina Lucìa che vive in un quartiere qui vicino. Ci siamo conosciuti in modo virtuale qualche anno fa e abbiamo deciso di essere cugini. Anche lei fa di cognome Tabarini e suo nonno è originario di Novara, come mio nonno paterno. Non abbiamo approfondito ma visto che non siamo in tanti a portare questo cognome ci va bene così. Alle otto di sera assieme a suo moroso Diego, arriva sotto il palazzo dove alloggio. Loro vivono nel vicino quartiere di Núñez. Diego è per metà di origini galiziane e per metà italiane. Di professione architetto si sta occupando di costruzione di ville in Patagonia. Lucìa è istruttrice di Kick boxing in una palestra. Hanno prenotato una parrilla (grigliata) in un locale caratteristico che raggiungiamo con Uber. Io e lei ci siamo scolati una bottiglia di Malbec mentre Diego si è dissetato con acqua. Dopo cena siamo andati al Carnal, un locale famoso per musica dal vivo. Mentre Diego beveva Pepsi io e Lucìa siamo andati di cocktails. Ora non ho più dubbi che siamo veramente cugini. Ovviamente dopo questa bellissima serata alcolica ho sospeso gli antibiotici. Dovevo scegliere. Da Diego ho appreso dell’esistenza del Lunfardo, uno slang tipico di Buenos Aires e Montevideo in cui si utilizzano molte parole italiane anziché spagnole, ad esempio birra al posto di cerveza, gamba al posto di pierna. Questo gergo è molto ricorrente nei testi delle canzoni di tango. Sono qui solo da due giorni ma se dovessi scegliere dove vivere tra le città che ho visitato in questo viaggio non avrei alcun dubbio.

Trentesimo giorno o Interludio

Con oggi il mio viaggio assume una connotazione diversa. Vi è una svolta, perché ora ho una data di ritorno, certa. Psicologicamente è un fatto rilevante perché muta il mio approccio mentale e che lo voglia o no vedo il porto di attracco all’orizzonte. Siamo condizionabili, sono condizionato. Ora cerco di riempire il bicchiere con i giorni e luoghi che mi rimangono ma in trasparenza sul fondo scorgo sempre più nitide le immagini dei luoghi e delle persone da cui provengo. Non che nei giorni scorsi ne ignorassi l’esistenza ma rimanevano lì, in qualche modo distanti, ora le vedo avvicinarsi, le vedo muoversi e vi riconosco la mia appartenenza. Il motivo del mio rientro anticipato è dovuto ad una necessità burocratica, un fatto tecnico banale ma improrogabile. Al di là di questo non mi sento mortificato o deluso. Sono felice di quello che ho fatto. Alcuni mi hanno chiesto se sono riuscito a ritrovare me stesso, in realtà non mi ero mai perso. C’era solo il desiderio di fare un’esperienza, di conoscere altre cose, altri paesi, luoghi che non conoscevo, anche dal punto di vista geografico. Alla base c’è curiosità, voglia di vivere, di mettersi in viaggio. Non era una necessità di fuggire o di scappare, chi mi conosce sa che la mia vita è realizzata dove vivo e probabilmente ora ne sono ancora più consapevole, apprezzo ancora di più ciò che ho. Anche a questo può servire un viaggio. Mentre scrivo sono in una stanza disadorna di un albergo altrettanto squallido, fuori piove e fa freddo e fa buio presto. Qui a Buenos Aires è pieno inverno, pare di essere a novembre in una qualsiasi città della Renania, e non mi sono ancora rimesso del tutto. Stamattina l’aereo è atterrato poco prima delle cinque. Avrò dormito un paio d’ore. Il taxi in quaranta minuti mi porta nel quartiere di Palermo in centro. Lungo il tragitto l’autista mi intrattiene in una interessante conversazione sulla lingua guarani. Un’idioma pre-colombiano parlato attualmente da circa sei milioni di persone. È la lingua ufficiale del Paraguay assieme allo spagnolo. È riconosciuta e parlata anche il alcune province dell’Argentina, del Brasile e della Bolivia. Prima dell’arrivo dei colonizzatori era parlata dai Caraibi lungo tutta la Cordigliera delle Ande. È molto difficile ed è caratterizzata dall’utilizzo di sei vocali, molte parole sono formate da più vocali unite. La mamma del taxista è paraguaiana e lui l’ha imparata sin da piccolo. Quando arriviamo la portineria dell’albergo è accesa, però devo suonare. Fuori è buio e fa un freddo cane. Chiedo al portiere se posso attendere qualche ora sulla poltrona sbrindellata sotto il bancone ma lui mi risponde che, tuttalpiù può tenermi la valigia. Gli chiedo se trovo un caffè aperto a quell’ora e lui mi fornisce le indicazioni di uno a circa duecento metri. Mi alzo il bavero del giubbotto e mi avvio lungo il marciapiede. In realtà il locale è ancora chiuso. Proseguo per alcune centinaia di metri finché, bello illuminato e accogliente mi appare un McDonald. Dentro ci sono già alcuni giovani seduti a bere una bevanda calda. Non ho ancora valuta argentina, ma posso pagare con la carta. Il ragazzino al banco è premuroso. Prendo il mio vassoio con un bicchierone di caffè con la panna e una mezzaluna glassata. Mi siedo comodo e caldo e dispongo anche di una presa USB. Credo sia l’unica volta che benedico l’esistenza di un McDonald.

Ventottesimo e ventinovesimo giorno

Martedì mattina prendo il taxi per farmi accompagnare nel centro storico. Anche qui come a Panamà il taxi è molto comodo. Passano continuamente queste utilitarie gialle, mezze scassate. Dieci quindici minuti di corsa costano circa due euro, non oso pensare quanto poco possa costare una corsa in autobus. In un paio di occasioni mancava il cristallo sul lato passeggero e in questi casi l’autista cerca di evitare di passare in certi quartieri oppure cerca di accellerare rimanendo nella corsia centrale. Tutti strombazzano col clacson, ai semafori iniziano ancora prima che diventi verde, forse per tener sveglio il guidatore davanti. Sono tutti estremamente gentili. Ti salutano sempre con modalità del tipo: “Buona fortuna amico mio” “Che Dio ti accompagni sempre” o altre simili, magari accompagnate da consigli o raccomandazioni. Le vie centrali sono come sempre molto affollate di venditori, passanti, gente in cerca di fortuna. Scendo e faccio qualche passo tra le bancarelle. Infilo la mano nella tasca e non trovo il cellulare. Vado in panico completo. Senza di esso perdo tutti i riferimenti ai voli prenotati, hotel, contatti. Se dovessi scegliere meglio rimanere senza portafoglio. Mi viene il dubbio di aver lasciato la zip aperta e magari mi è caduto o me l’hanno sfilato. Spero mi sia scivolato nel taxi. Inizio a correre dove ero sceso e poi ancora nella direzione in cui il taxi era diretto. Per fortuna in centro il traffico è a passo d’uomo. Oltrepasso alcuni taxi finché ad un semaforo individuo il mio. Apro la portiera e trovo il mio cellulare sul sedile. Mando istintivamente un bacio all’autista e lo ringrazio. Lui calmo mi dice che me l’avrebbe tenuto da parte, però non so come avrei potuto recuperarlo dato che non era venuto in hotel a prendermi. In ogni caso credo di aver perso un anno di vita nella concitazione, ora però sono galvanizzato e mi avvio serenamente al Museo di Antioquia. Sono tre piani, quello più in alto è dedicato ai quadri di Fernando Botero e devo dire che sono meravigliosi. L’artista di Medellin è ancora in vita, quest’anno compie novant’anni. Non si possono fotografare ma un paio di scatti riesco a rubarli. Per il resto ci sono altre opere di vari artisti colombiani e sudamericani. Vado a mangiare in una specie di mensa. Qui il piatto forte è la bandeja paisa oppure l’arepa antioquena. Piatti unici con riso, fagioli, carne, insalata, uovo fritto, carne e platano. Molto appetitosi. Un paio d’ore le trascorro in un centro ricreativo di tango, il Salon Malaga, un bel locale con juke-box, giradischi e con una scaletta di pezzi musicali rari degli anni venti tutti legati al tango. Medellin insieme a Buenos Aires e Montevideo è una delle città con una grande passione per quest’arte. Più tardi faccio una lunga passeggiata fino a raggiungere Pueblito Paisa in una collina con un pittoresco borgo da dove si possono ammirare splendide vedute sulla città. Sono sudato e stanco, sicuramente ciò non fa bene al mio raffreddore. Il mercoledì non mi sento in formissima, devo cambiare albergo. Torno a mangiare in centro, una zuppa, un secondo e un succo di maracuja, il tutto per tre euro. Ora faccio fatica a deglutire. Mi faccio un’autodiagnosi e mi convinco di avere una specie di laringite da batterio. Decido di rientrare in hotel. Prendo un antibiotico a base di Amoxicillina e mi distendo. Mi sale un febbrone incredibile. Ho i brividi con la coperta. Dopo qualche ora e un po’ di Oki riesco ad addormentarmi. Domani devo andare in aeroporto e ho bisogno di essere in forza. Mi congedo da questa città piena di vita, di gente calorosa e con evidenti differenze sociali. Molti senzatetto, tanti che vivono in condizioni igieniche precarie e altri quartieri molto curati e ricchi. Mi sono svegliato un po’ meglio anche se sono ancora nella fase acuta di qualcosa. Ho fatto una doccia calda e una bella colazione in veranda. Ora, con calma mi avvio all’aeroporto, stasera ho il volo per Buenos Aires.

Bandeja Paisa
Uccisione di Pablo Escobar
Frate dominicano

Ventisettesimo giorno

L’aereo per Medellin ha un ritardo di circa tre ore, per cui si partirà col buio. La temperatura dell’aria condizionata è troppo bassa e purtroppo ho già consegnato i bagagli. Faccio conoscenza con un ragazzo olandese di ventisette anni che è in giro per il mondo da quattro anni. È stato in tutti i continenti tranne l’Africa. Ogni tanto si ferma a lavorare qualche settimana in giro. Pensa di ritornare a casa entro fine anno. La cosa mi incuriosisce. Lui dice che scelte di questo tipo rientrano facilmente nella cultura del suo paese. I genitori e la sorella lo supportano ma non finanziariamente. È un ragazzo molto educato e colto. Si percepisce chiaramente la ricchezza che ha assimilato in questi anni. Dice che si può studiare sui libri ma anche girando ed entrando nelle culture dei popoli. Non utilizza i socials ad eccezione di quelli utili per viaggiare come Couchsurfing o Work away, prende solo delle annotazioni su un piccolo libretto. Essendo vegano deve anche destreggiarsi tra le varie cucine, in alcuni paesi è più complicato. Naturalmente, mi dice, questa è solo una parentesi della sua vita. In sostanza lui si sente un cittadino del mondo. La cosa che più lo ha fatto riflettere sono le condizioni di povertà che permangono tuttora in molti paesi e come questo ti aiuti ad apprezzare quello che hai, a non pretendere, a non lamentarti, ad adattarti, a saper rinunciare a tante comodità. Viaggiare da soli è un modo per viaggiare, non è l’unico. Anche viaggiare con qualcuno e condividere i vari momenti è bello. Io penso che ci sia un tempo per l’uno e un tempo per l’altro. Non bisogna per forza essere esclusivi, ancorarsi su un concetto fisso. Il mio viaggio dopo questo incontro assume un ridimensionamento. “Gigi” penso tra me e me. “Te se via da solche un mese”. Io penso in dialetto alcune volte, soprattutto nelle sentenze conclusive. L’aereo finalmente decolla. L’aeroporto di Medellin è lontano dalla città, per fortuna la prima notte ho trovato una sistemazione molto vicina e mi vengono anche a prendere. L’impatto con la Colombia è caloroso. Sono tutti gentilissimi e amichevoli. La coincidenza vuole che l’Atletico Nacional (squadra cittadina) proprio stasera conquisti lo scudetto di calcio e quindi la festa è ovunque. Un tifoso mi offre l’Aguardiente che sarebbe la loro grappa. Appena finisce il trambusto mi addormento. L’indomani arrivo in città con l’autobus, lascio i bagagli in hotel e mi avvio nei posti che mi ero segnato. Il taxi mi porta in Piazza Botero. Proprio nei pressi c’è un quartiere da evitare. Il taxista mi invita ad alzare i finestrini e chiudere la porta dall’interno. Ammucchiate sui marciapiedi centinaia di senzatetto, drogati, volti sinistri, violenti, sicuramente pronti a tutto. Passiamo oltre. Nella piazza ci sono ventitre sculture di questo artista, c’è anche il museo dedicato in gran parte a Fernando Botero, che era anche un pittore. Purtroppo oggi è chiuso. I bronzi raffigurano donne, uomini e animali, in formato extralarge, voluttuose. Poi vado a visitare il museo della memoria che racconta la storia della Colombia dopo la seconda guerra mondiale. Una storia fatta di sangue e violenza, legata alla corruzione politica, a dittature, a scontri sociali e al narcotraffico. Prima di tutto questo Medellin godeva pacificamente della sua splendida posizione geografica in questa valle tra le montagne, una terra ricca e fertile dove i contadini (campesinos) convivevano tranquillamente con gli afro-americani. Il personaggio più noto e controverso è sicuramente Pablo Escobar il più grande e ricco narcotrafficante di tutti i tempi con un impero che lo ha annoverato tra le sei persone più ricche del pianeta. Il suo fascino sinistro è legato al fatto che accanto ai suoi efferati omicidi compiuti quasi sempre da sicari e ad una criminalità spietata si legava ai più poveri della città costruendo ospedali, campi da calcio e case. Questo gli procurava la protezione quando si nascondeva nei quartieri di Medellin. Nel pomeriggio sono salito con la cabinovia fino al Parco Arvi, un parco naturalistico in montagna a circa 2500 slm. In questo modo ho potuto vedere i sobborghi che si arrampicano sui rilievi scoscesi e respirare un po’ di aria buona. Questa città ha un’anima forte e io mi sto addentrando nel caloroso sangue sudamericano. Purtroppo l’aria condizionata ha sortito i suoi effetti ed ora devo fare i conti con il raffreddore.